P*i

Welcome to P*i, Polyhedra’s blog featuring narrative fragments of the sciences, arts and humanities. After all, culture is also a seamless fabric of scientific and artistic achievements that constantly inform and capture the individual and collective imagination.

The interviews, papers and passages presented do not follow any particular order other than the errant and random swaying of our curiosities and explorations. P*i has no pretension but to re-propose the most singular episodes we encounter whilst rummaging through culture’s remnants.


[#0] P*i · an introduction

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Accept what Professor Cayley tells us of the beautiful and splendid power of Mathematics to idealise and to condense common sense, and you will not be discouraged.

Lord Kelvin in “Les Six Portes de la connaissance”

P* for Polyhedra. But i?

Why i? We like to think of i as the imaginary number, the square root of -1. Just as imaginary numbers in mathematics depart from the realm of the real allowing us to play in an ‘imaginary’ dimension and yet produce results applicable to the ‘real’ world, so do fables, songs, artworks, poetry and other artistic expressions play in the realms of imagination and dream, creating new or renewed narratives, insights and sensibilities whose end results – be they graspable or just an inexplicable sensation – expand our spaces of perception and knowledge. As does the imaginary unit i – with its cursed tautological meaning and its existence as a non or impossible object -, also the arts unravel and articulate reasonings and impressions, explore dimensions and impossibilities. Both, after all, can reveal a land of augmented perception, reflection and creation.

Perhaps the meaning of writing of art of poetry is tautological; but the act of it, just like the act of operating in the complex plane of imaginary numbers, generates expressions and results in the plane of the real. As explored in our first entry “Fable’s Game” (see below), their truth might lie in the act of interweaving the fable of the hermeneutical circle of thought, their task in collecting the scraps of Sophie, Fable and Eros. The actuality of play and exploration lies in the indefinite possibilities of the imaginary collapsing in the act of poiein.

P*presents specks of stories, lives, ideas and creations – be they scientific or artistic – cultivated throughout our time. Our only pretension here is to pull together threads and facets of culture to incite curiosity, dialogue and confrontation. The vestiges we collect call upon being seen and understood as stories, not as information. Rather than a space for chronicle and news, P*i wants to be perceived as a topology of narratives distended in time: novelty and the sensational has its compensation in the here and now, its totality is consumed in a moment, they must be evident without loosing time; story-telling on the other hand is not consumed, it conserves its intimate power and can always be valid in the interpretive throb of epochal sensibility.

More on imaginaries:
Paul J. Nahin, An imaginary Tale, The Story of square root -1. Princeton University Press, 1998, p. 37.
Isaac Asimov, "The Imaginary That Isn't", in Adding a Dimension, Discus Books/Avon, 1975, pp. 68-79.
http://www.friesian.com/imagine.htm 

[#1] Fabel’s game / Il gioco di Favola

[EN] Extract from the introduction to L’altra scena. Saggi sul pensiero antico, medievale, controrinascimentale (1979, Edizioni Dedalo). Through a reading of Novalis’ Henry of Ofterdingen (Chapter 9), Carmine Benincasa speaks of that redundancy of writing, yet its magical and powerful voice in creating our contemporaneity with its dissolving and vanishing act which unwittingly continues.

[IT]
Estratto dell’Introduzione a  L’altra scena. Saggi sul pensiero antico, medievale, controrinascimentale (1979, Edizioni Dedalo, Bari). In questa lettura dell’Enrico di Ofterdingen (Capitolo 9) di Novalis, Carmine Benincasa parla della ridondanza della scrittura, eppure il suo magico e poderoso modo di creare la nostra contemporaneità, con il suo atto che infaticabilmente si dissolve e svanisce.

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“La natura – scriveva Novalis – è nemica di possessi perpetui. Secondo leggi fisse essa distrugge tutti i segni della proprietà, cancella tutti i caratteri della formazione. La terra appartiene a tutte le generazioni. Ognuno ha diritto a tutto… Il diritto di proprietà cessa ad epoche determinate”1.

La terra del pensiero ha larghi campi non completamente dissodati, dove la forza del desiderio e l’attrazione dell’ignoto ha piu facile gioco di tensione: è così che ci siamo incamminati verso le estensioni illimitate di una realtà finora conosciuta solo come “altra”, come negatività. Un mondo familiare che da sempre ci circonda ma a cui non facciamo quasi mai riferimento, una favola-sogno che disciolga i legami del tempo e i tempi distanti di un tempo che quasi più non conta. Per questo ripercorrendo la parola e la scrittura, tutto si trasforma ancora una volta in una scrittura sterminata: “es ist uns alles eine grosse Schrift”2 [ed è tutto una illimitata scrittura].

Ma perchè una nuova sottile vibrazione, un Luftseele (come scrive Novalis), ancora una lacerazione della parola, la nostra, sulla scrittura? Perchè il pensiero svanisce e al contempo continua.

La voce si dissolve e svanisce, ma la parola continua nel non ascolto. E così ci siamo trovati a ripercorrere l’avventura dello scrivano contenuta nel cap. IX dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis. Lo scrivano nulla comprende ma sa che tutto accade e non vuole lasciar perdere nulla di ciò che avviene. Tutto in questa favola nella favola è movimentato, ma lo scrivano tende ad accumulare tutto, tutto è vita e tutto lo scrivano tende a trasformare in specchio, in doppio, in morte. In un tempo in cui la Favola attende di riacquistare i suoi antichi diritti, la musica precede i suoni e i segni del potere e sulle foglie “mescolate con cura” dal re vi sono sacri e arcani segni, composti tutti con figure di costellazioni e le stelle “si libravano, ora lente ora preste, in linee di continuo mutate e riproducevano, seguendo il tempo della musica, con la più grande arte le figure delle foglie. La musica cambiava incessantemente e le stelle seguivano, volando, le immagini”. Ecco, “in questo tempo, il bel bimbo Eros giaceva nella sua culla e dormiva dolcemente, mentre Ginnistan la nutrice dondolava la culla e dava il petto alla sua sorella di latte, Favola. Ella aveva steso il proprio scialle variopinto sulla culla perchè la vivace lampada che lo scrivano teneva davanti a se non infastidisse il fanciullo colla sua luce. Lo scrivano scriveva indefessamente; solo, di tratta in tratto, dava un’occhiata burbera ai bambini e faceva cupe smorfie alla nutrice, che gli sorrideva benigna e taceva.

Il padre dei bambini entrava e usciva di continuo, e ogni volta rimirava i figliuoli e salutava affettuosamente Ginnistan. Egli aveva sempre qualcosa da dire allo scrivano. Questi lo ascoltava ben bene, e quando aveva preso nota della cosa, porgeva i fogli a una donna nobile, di portamento divino, che stava appoggiata a un altare su cui era una coppa oscura con acqua chiara, nella quale guardava con sereno sorriso. Ella vi tuffava ogni volta i fogli, ed essendosi, al ritrarveli, assicurata che un pò dello scritto vi rimaneva, e divenuto brillante, rendeva il foglio allo scrivano, il quale lo cuciva in un gran libro, e spesso sembrava indispettito, quando la sua fatica risultava vana e tutto si scancellava. La donna si volgeva di tempo in tempo verso Ginnistan e i bimbi, tuffava il dito nella coppa e spruzzava su loro alcune gocce, che, appena toccata la nutrice, o il bimbo o la culla, si dissolvevano in un vapore azzurro, il quale figurava mille immagini portentose e di continuo fluttuava attorno a loro e svariava. Se per caso una goccia colpiva lo scrivano, ne cadeva una quantità di numeri e di figure geometriche, che egli con gran premura infilzava e s’appendeva al magro collo per ornamento. La madre del bimbo, che era la grazia e la bellezza fatte persona, veniva spesso dentro. Ella pareva continuamente indaffarata e portava sempre fuori con se qualche utensile casalingo: quando se ne accorgeva, il sospettoso scrivano, che la seguiva e spiava collo sguardo, cominciava una lunga romanzina, cui peraltro, nessuno prestava ascolto. Tutti sembravano abituati alle sue sue inutili obbiezioni. La madre dava per qualche istante il petto alla piccola Favola; ma tosto la richiamavano, e Ginnistan riprendeva la bimba, che sembrava poppare da lei più volentieri. A un tratto il padre portò dentro una flessibile verghetta di ferro, che aveva trovato nella corte. Lo scrivano la osservò e rigirò con grande vivacità, e presto scoprì che, appesa per il mezzo a un filo, si volgeva per se medesima verso il Nord. Anche Ginnistan la prese in mano, la piegò, la compresse, vi soffiò sopra, e le ebbe in breve dato la figura d’un serpe, che subito si morse la coda. Lo scrivano fu presto noiato dell’esame. Egli annoto per bene ogni cosa, e si dilungò molto sull’utilità che questo trovato poteva recare. Ma come si indispettì quando tutto il suo scritto non superò la prova e il foglio uscì bianco dalla coppa. La nutrice seguitava a giocare col serpe. Per caso toccò con esso la culla, e allora il bimbo si destò, rigettò la copertura, tenne una mano contro la luce e protese l’altra verso il serpe. Quando lo ebbe, saltò gagliardo, che Ginnistan si spanventò e lo scrivano per la paura a momenti cadeva dalla seggiola, fuor della culla e stette in mezzo alla stanza, solo coperto dei suoi lunghi capelli d’oro, e rimirava con indicibile gioia quella cosa preziosa che tra le sue mani tendeva verso il Nord e pareva muoverlo dentro potentemete. A vista d’occhio egli cresceva. – Sofia – disse alla donna con conturbante voce, – fammi bere alla coppa -. Colei giela porse senza esitare, ed egli non poteva saziarsi di bere, mentre la coppa sembrava tuttavia rimaner piena. La rese infine, e abbracciò fervidamente la nobile donna. Strinse al petto Ginnistan e la pregò di dargli il suo scialle variopinto, con cui si cinse acconciamente i fianchi. Prese in braccio la piccola Favola. Questa parve trovare in lui sommo diletto e cominciò a ciarlare. Ginnistan si dava un gran daffare attorno a lui; ella appariva oltremodo allettante e licenziosa, e lo abbracciava col fervore di una sposa. Sussurandogli parole misteriose lo andava traendo verso la porta della altra stanza, ma Sofia fece severo cenno e indicò il serpe; in quella entrò la madre, alla quale egli si precipitò incontro, e la accolse con calde lagrime. Lo scrivano se n’era andato, livido di rabbia. Il padre entrò e, vedendo madre e figlio in silenzio abbracciamento, si accostò, dietro le loro spalle, alla seducente Ginnistan e prese ad accarezzarla. Sofia salì la scala. La piccola Favola prese la penna dello scrivano e cominciò a scrivere. Madre e figlio si sprofondarono in un colloquio sommesso, e il padre scivolò con Ginnistan nell’altra stanza, per rifarsi tra le sue braccia delle fatiche della giornata. Dopo un bel tratto Sofia tornò, e rientrò lo scrivano. Il padre venne fuori dall’altra stanza e se ne andò per le sue faccende. Rientrò anche Ginnistan, con guance ardenti. Lo scrivano con grandi imprecazioni scacciò la piccola Favola dal proprio posto, e gli ci volle alquanto tempo per rimettere in ordine le sue cose. Egli porse a Sofia i fogli riempiti da Favola per riaverli puliti, ma fu preso tosto dalla massima indignazione quando Sofia ritrasse dalla coppa lo scritto tutto lucente e intatto e glielo tese. Favola si stringeva a sua madre, che se la prese al petto e andava rassettando la stanza, apriva le finestre per lasciar entrare l’aria fresca e faceva preparativi per un ricco convito. Dalle finestre si scorgeva la piu bella veduta, e un cielo sereno teso sulla terra. Nella corte il padre era in piena attività. Quando era stanco, guardava in su alla finestra cui era affacciata Ginnistan, che gli buttava ogni sorta di leccornie. Madre e figlio uscirono onde porgere aiuto e disporre ogni cosa per la risoluzione presa. Lo scrivano menava la penna, e faceva una smorfia ogni volta che era costretto a chieder qualcosa a Ginnistan, la quale aveva memoria tenace e ricordava tutto quanto avveniva. Eros tornò presto in una bella armatura, intorno a cui era annodato, come sciarpa, lo scialle variopinto, e pregò Sofia di consigliarlo sul quando e come dovesse intraprendere il suo viaggio. Lo scrivano s’intromise e voleva tosto soccorrere con un particolareggiato piano di viaggio, ma le sue proposte restarono inascoltate. – Tu puoi partire subito; Ginnistan può accompagnarti, – disse Sofia: – è pratica del cammino e ovunque ben conosciuta. Ella prenderà figura di tua madre, per non indurti in tentazione. Se trovi il re, pensa a me; verrò allora in tuo aiuto”3.

E’ stata delineata, in questo racconto, tutta l’avventura della scrittura, la sua inutilità (“tutti sembravano abituati alle sue inutili obiezioni”), la sua maledetta tautologia (la verghetta di ferro contemplata dallo scrivano si trasforma in una figura di un serpe “che subito si morde la coda”), la sua cancellazione (“il foglio uscì bianco dalla coppa”), la sua condanna ad una sete inestinguibile all’ininterruzione (“ed egli non poteva saziarsi di bere, mentre la coppa sembrava tutta rimaner piena”), il suo livore per tessere all’infinito una rete le cuí maglie custodiscono il vuoto, il suo andare via per restare a mani vuote (“lo scrivano se n’era andato, livido di rabbia”), l’ineluttabile inutile servizio, perchè la sua verità sta solo nel tessere la lunga favola del cerchio ermetico del pensiero (“la piccola Favola prese la penna dello scrivano e cominciò a scrivere”, e quando lo scrivano imprecò per la scrittura di Favola e porse a Sofia (sapienza) i fogli perchè avvenisse anche sui fogli di Favola la cancellazione, “fu preso tosto dalla massima indignazione quando Sofia ritrasse dalla coppa lo scritto tutto lucente e intatto e glielo tese”). Ecco dunque i compiti della nostra scrittura: raccogliere le briciole degli scarti di Sofia, di Favola e di Eros. Non solo. La scrittura è sempre infida e assetata di potere: ma verrà sempre emarginata (“lo scrivano andava da lungo tempo cercando l’occasione di impossessarsi del reggimento della casa e di scuotere il proprio gioco”). E quando finalmente si impossessa del regno, Favola gli sussurra: “non ti manca piu altro che la clessidra e la falce”, ossia il tempo che genera la sua morte. Ma la realtà e che la scrittura scomparirà per la sua inutilità, “il gran mistero è a tutti palese e rimane in eterno senza fondo” (p. 159), e il mistero del mondo non lo custodisce la scrittura, che semina strage e rovine, ma Sofia, Amore e Favola. “Che cerchi? – disse la sfinge. – Ciò che mi appartiene, – rispose Favola. – Di dove vieni? – Da antichi tempi. – Sei ancora una bimba. – E in eterno sarò una bimba. – Chi ti assisterà? – Io mi assisto da me. Dove sono le sorelle? – chiese Favola. – Ovunque e in nessun luogo, – fu la risposta della Sfinge. – Mi conosci? – Non ancora. – Dov’è amore? – Nell’immaginazione. – E Sofia? – La sfinge mormorò tra sè qualcosa di enigmatico, e rumoreggiò colle ali. – Sofia è amore, – esclamò trionfante Favola, e oltrepassò la soglia”. (p. 147) E ancora la Sfinge domandò a Favola: “chi conosce il mondo? – Chi conosce se stesso. – Qual’è l’eterno mistero? – L’amore. – In chi riposa? – Sofia”. (p. 154). E così la scrittura va solo per andare senza restare, va nell’inanità della sua futura scomparsa, sulla “soglia della lontanza” (an der Schwelle der Ferne), esce dal mondo del conosciuto per una possibile Favola che la cancellerà. Il desiderio della nostra scrittura è verso le cose di sempre, il desiderio (Eros) di Favola è desiderio di parole “che non sa” (di Sofia). Il tempo della scrittura è sempre l’altrove, (memoria) come il tempo del mondo; il tempo di Favola è l’altrove, come il tempo della poesia e della profezia.

1Novalis, Frammenti. tr. it. Milano 1948. fr. 1412.

2Novalis, Schriften, Stuttgart 1960, vol. I p. 90.

3Novalis, Enrico di Ofteringen, tr. it. Milano 1978, pp- 139-142.

*read Novalis' original text, Henry of Ofterdingen, Ch. IX at Gutenberg project

[#2] Antarctic ice crystals

When artists and scientists get together, creative sparks can fly…The benefits to science can be difficult to articulate but chief among them is a reminder of the importance of open-ended exploration. Another is to be asked questions by someone who spent even more time simply looking at the object of scientific inquiry than the scientists themselves.

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When artists get involved in research, science benefits

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The authors have collaborated on an Antarctic research project, investigating tiny ice crystals and their role in climate.
Gabby O’Connor’s Studio Antarctica/Johanna Mechem, CC BY-ND

Craig Stevens and Gabby O’Connor

When artists and scientists get together, creative sparks can fly. Collaborative sci-art projects are increasingly popular and one obvious benefit is the greater visibility of the research through the artist’s work.

Our project explored scientific and artistic aspects of Antarctic ice crystals.

But what’s in it for the scientists? It reinvigorates a curiosity about the system and brings an outsider perspective – but one that is expert in observing.

Taking a different perspective

We draw on a six-year collaboration to look at how science benefits from embracing a wider perspective on creativity. Our joint project started with an art-science speed-dating event, aimed at building collaborative teams.

Our connection centres around an Antarctic research project investigating the formation of platelet ice, which plays an important role in the annual growth cycle of sea ice around the Antarctic continent. In particular, the science looks at how tiny ice crystals influence much larger climate processes.

Craig Stevens in Antarctica: tiny crystals of ice help explain how sea ice surrounding the continent grows and decays.
Brett Grant, CC BY-ND

We were able to build on the intrinsic fascination people have with Antarctica and the interest in climate science. The scientists acted as a conduit of research to the artist. This added another layer of meaning to the artwork and an entry point to conversations around Antarctic ocean processes and climate change. This loop of enquiry seems to happen differently in art-science collaborations.

Broadening creativity

Our collaboration has evolved from arm-chair slide shows, through cross-disciplinary participation and Antarctic expeditions, to a final stage that includes a proliferation of ideas around art, education and science.

The benefits to science can be difficult to articulate but chief among them is a reminder of the importance of open-ended exploration. Another is to be asked questions by someone who spent even more time simply looking at the object of scientific inquiry than the scientists themselves.

The first phase of our project was to find a catalyst to connect enthusiastic creative people. A second phase followed with the science team taking basic components of an art work (a large paper sculpture) with them to Antarctica and assembling them as they saw fit, much like a piece of science equipment. This had impact, but was probably detrimental to the power balance in the collaboration because it left the scientists in control of both the art and the science. It turned out that the scientists didn’t follow instructions, and instead responded to the constraints of the working environment – much like the art practice.

Artist Gabby O’Connor spent hours photographing platelet ice retrieved from underneath Antarctica’s sea ice.
Gabby O’Connor’s Antarctica Studio/Craig Stevens, CC BY-ND

The next step involved getting the artist to Antarctica, embedded with the science. This had to be navigated carefully to ensure that the art retained its own priority as well as collaborating with the science, rather than being simply co-located.

A cornerstone to this was a request that the artist should make scientific measurements and, by doing so, added a whole new dimension where by there was an art perspective on the actual scientific process.

History of sci-art collaboration

In the past, artists were often involved in research purely to document the science. Captain James Cook took the painter William Hodges to polar extremes where he captured Antarctic seascapes. When the paintings were prepared for an exhibition in 2004, X-radiography revealed a different and unfinished view of icebergs in a rough sea.

Edward Wilson, a doctor and artist, accompanied Robert Falcon Scott to the pole and beyond. In some ways, these people acted as impartial sounding boards for the explorers and scientists at the time. The ease with which photography is achieved today has reduced the need for this role, but has something been lost along the way?

Much has been written about how facts alone do not convince people. A sideways approach that comes from an entirely different artistic perspective might therefore have a chance of penetrating established boundaries.

The art of science communication

Platelet ice.
Gabby O’Connor, CC BY-ND

Where once science was its own domain, this is no longer the case. Implications of research findings need to connect with broader audiences. But how can you explain something you barely understand yourself to multiple publics?

Analogues with popular culture can bridge this gap. With around 90% of New Zealanders and even more Australians engaging with art, it provides a useful conduit to science.

Our collaboration was initially largely unfunded and viewed as an irrelevant curiosity. However, support built quickly, to the point that the project was used to open a recent national Antarctic Science Conference.

Through all the phases of our work, we made connections with young people. We had sufficient support from teachers to develop workshops and extra-curricular activities for schools, and the climate topic made this part of our engagement more effective.

Platelet ice builds up on the underside of sea ice and has to be sampled through carefully melted holes in the ice.
Gabby O’Connor, CC BY-ND

What is in it for science?

Lots, it turns out. The scientist is reminded of the power of curiosity, something that can get lost in times of targeted research. The artist also asks questions based on hours and hours of observing the system at hand. Somewhat unexpectedly in our case, the artist became a documentor of the work in a way that we hadn’t previously achieved.

Added benefits are embedded with the next generation of scientists who will more readily span the divide, to the extent that they may not know a gap once existed. Also, part of the future science cohort may exist simply because of the inspiration found in art that connects with science.

The ConversationWe are at a time where the entire collective knowledge of our species is available with a stab of a fingertip. It becomes possible, necessary even, to leap across disciplines to generate new ideas.

Craig Stevens, Associate Professor in Ocean Physics and Gabby O’Connor, Artist, PhD candidate, interdisciplinary researcher

This article was originally published on The Conversation. Read the original article.


[#3] Sydney Brenners’ Caenorhabditis elegans

Nobel Laureate Sydney Brenner, who won the 2002 Nobel Prize in Physiology or Medicine for bringing the roundworm Caenorhabditis elegans to the attention of generations of biologists, has inspired Scientists and Artists alike.
Read the article by Eva Amsen

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 “Nematode kiss”. Two C. elegans worms under the microscope.
Image taken by A. Hope Jahren


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8 thoughts on “P*i

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